Chi sono i rifugiati palestinesi?
Generalmente il termine di rifugiato palestinese si riferisce a quei palestinesi che erano stati dislocati dalle loro terre d’origine nella Palestina del mandato britannico (che oggi corrisponde ad Israele ed ai territori palestinesi occupati nel 1967) i quali sono impossibilitati ad esercitare quello che è un loro
diritto umano fondamentale: ritornare alle loro case e proprietà.
L’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA1) che provvede ai basilari servizi di sanità, educazione e soccorso, ha elaborato una buona definizione dei rifugiati palestinesi. Tale definizione, in ogni caso, non comprende esaustivamente tutti i rifugiati palestinesi dislocati a seguito del conflitto israelo-palestinese ed include solamente i rifugiati palestinesi del 1948 i quali possono richiedere assistenza presso l’ UNRWA.

 Chi è un rifugiato palestinese internamente dislocato "IDPs"?
Quando si parla di persone internamente dislocate si fa riferimento a quegli individui o gruppi di persone che sono stati obbligati a fuggire o a partire dalle proprie case in seguito a conflitti armati, situazioni di violenza generalizzata e violazioni dei diritti umani ma che non hanno attraversato il confine di un altro Stato internazionalmente riconosciuto. La maggior parte dei rifugiati della Nakba (parola araba che significa catastrofe) del 1948 furono dislocati in diversi Stati Arabi, nella West Bank e nella striscia di Gaza. Questi due ultimi territori si trovavano rispettivamente sotto il dominio di Giordania ed Egitto, fino a quando furono occupati da Israele nel 1967. Alla fine della guerra tuttavia più o meno 150.000 palestinesi rimasero nell’area territoriale palestinese che diventò poi lo Stato d’Israele. All’incirca 40.000 tra questi vennero internamente dislocati. Israele impedisce agli sfollati interni e agli 800.000 rifugiati palestinesi dislocati fuori dai confini del nuovo Stato di ritornare alle loro case e ai loro villaggi. 
I beduini jahalin sono rifugiati del 1948 provenienti dall’area di Bersheba nella Naqab (Negev). I jahalin trovarono originariamente rifugio nell’area di Hebron prima di spostarsi nel 1960 verso il deserto che si trova tra Jericho e Gerusalemme. Le famiglie jahalin furono poi costrette ad abbandonare gli insediamenti di Ma’ale Adumin. Adesso il muro di Israele minaccia di dislocare nuovamente all’incirca 3.000 beduini jahalin. Questo costituirebbe un ennesimo esempio del forzato ed incessante dislocamento dei palestinesi dalle loro terre.
La dislocazione interna dei palestinesi continua mano a mano che Israele si fortifica. IDPs spontaneamente tornati ai loro villaggi e palestinesi che non erano sfollati durante la guerra del 1948 sono stati evacuati. Ufficiali israeliani hanno inoltre trasferito palestinesi da un villaggio ad un altro all’interno dei confini dello Stato in modo da facilitare la colonizzazione di quelle aree. All’interno dei territori palestinesi occupati da Israele a partire dal 1967 un numero ancora maggiore di palestinesi è stato dislocato conseguentemente alla guerra, alla demolizione di case, alla revoca dei diritti di residenza nell’area di Gerusalemme, alla costruzione di insediamenti ebrei illegali, e a quella del muro con tutto il sistema ad esso connesso.

Quanti rifugiati palestinesi e IDPs ci sono nel mondo?
Non è facile fornire il numero esatto di rifugiati palestinesi e IDPs perché non è mai stata effettuata una registrazione esauriente. Le stime globali a cui si ha accesso si basano su registrazioni parziali delle agenzie delle Nazioni Unite, informazioni fornite da ricerche o censimenti rilasciati dai paesi ospitanti
o stime fornite dalle comunità palestinesi stesse.
Oggi si calcolano più di 7 milioni di rifugiati palestinesi e IDPs. Questo numero include: 4.5 milioni di rifugiati palestinesi dislocati nel 1948 che si erano iscritti per ricevere assistenza presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione; Una stima di 1.5 milioni di rifugiati palestinesi dislocati nel 1948 che tuttavia non fecero domanda di assistenza presso l’ UNRWA; 950.000 rifugiati dislocati nel 1967; circa 338.000 palestinesi dislocati in Israele; e una stima di 115.000 palestinesi dislocati nei Territori Occupati. In totale, la popolazione di rifugiati palestinesi comprende approssimativamente tre quarti dell’intera popolazione palestinese nel mondo, calcolata oggi intorno ai 9.8 milioni.
I rifugiati palestinesi sono il più numeroso gruppo di rifugiati nel mondo, infatti ogni cinque rifugiati, quasi due sono palestinesi. Il numero di rifugiati palestinesi registrati presso l’ UNRWA (rifugiato UNRWA o rifugiati registrati) sono molto spesso erroneamente citati come la totalità della popolazione di rifugiati palestinesi. In realtà, molti rifugiati non si sono registrati con l’UNRWA perché non si sarebbero qualificati per ricevere assistenza o perché si erano spostati in paesi dove l’UNRWA non provvedeva assistenza. Altri rifugiati, come gli IDPs che sono cittadini di Israele, furono successivamente eliminati dal sistema di registrazione dell’ UNRWA. I rifugiati dislocati nel 1967 o conseguentemente ad ostilità successive, non furono mai registrati nel programma UNRWA come rifugiati UNRWA, anche nel caso in cui ricevettero soccorso d’emergenza.

Perché i discendenti dei rifugiati e degli IDPs fanno parte del calcolo odierno?
In breve, la comunità internazionale continua a classificare figli e nipoti dei rifugiati palestinesi come rifugiati in quanto essi hanno lo stesso diritto all’assistenza internazionale, alla protezione e al risarcimento. Questa situazione rimarrà invariata fino a quando le nuove e vecchie generazioni di rifugiati palestinesi e IDPs avranno accesso a soluzioni durevoli (rimpatrio, integrazione nel paese che li ospita, reinsediamento in paesi terzi) e risarcimenti (che includano il ritorno, la restituzione e la ricompensa) in accordo con la legge internazionale. Lo stesso approccio viene applicato dalla comunità internazionale agli altri rifugiati nel mondo (Bosniaci e Guatemaltechi per esempio) così come agli IDPs di tutto il mondo.

Dove vivono i rifugiati palestinesi oggi?
Oggi i rifugiati palestinesi vivono in esilio forzato in molte aree del mondo. La maggior parte dei rifugiati tuttavia vive ancora nell’area compresa nei 100 Km dai confini dello Stato di Israele, là dove si trovano le loro case d’orgine. Alcuni di loro sono stati evacuati per ben due volte dalle loro case d’origine. UNRWA stima che la metà dei rifugiati che vennero forzati ad abbandonare le loro case nei territori occupati nel 1967 erano già rifugiati nel 1948. Approssimativamente un terzo dei rifugiati palestinesi registrati o il 20% della popolazione di rifugiati totale risiede in 59 campi ufficiali delle Nazioni Unite in Giordania, Libano, Siria, West Bank e nella Striscia di Gaza.

Quali sono le richieste dei rifugiati Palestinesi?
Sessant’anni dopo esser stati dislocati e spogliati dei propri beni, i rifugiati palestinesi continuano a rivendicare il diritto di rientrare in possesso delle proprie case d’origine e proprietà. Il poeta palestinese Mahmoud Darwish disse, durante un intervista: "Sogno di noi, non più vittime o eroi; vogliamo essere normali esseri umani. Quando un uomo diventa un essere umano qualunque e persegue le sue normali attività può amare od odiare il proprio paese, può
decidere di stare o di emigrare. Tuttavia, perché questo accada, dovranno esserci condizioni oggettive che non esistono oggi. Fino a quando i palestinesi verranno deprivati della loro terra d’origine, essi saranno obbligati ad essere schiavi di quella terra".

Cosa intendono i rifugiati quando parlano di diritto al ritorno? Perché i rifugiati desiderano tornare in Israele?
I rifugiati palestinesi non sono diversi dagli altri rifugiati di tutto il mondo. Così come gli altri rifugiati vogliono tornare nei luoghi che essi chiamano casa, per quanto difficile questo possa essere, a causa delle persecuzioni, dei conflitti armati e della distruzione del più naturale tessuto vitale; nello stesso modo i rifugiati palestinesi guardano al ritorno come alla principale soluzione alla loro situazione. Secondo l’Ufficio dell’ Alta Commissione dei Rifugiati delle Nazioni Unite, il ritorno (o rimpatrio) è la migliore soluzione alla dolorosa situazione dei rifugiati di tutto il mondo. Il riconoscimento del diritto al ritorno dei palestinesi significherebbe allo stesso tempo riconoscere quel che accadde, la loro storia individuale e collettiva, e l’ingiustizia di cui sono stati vittime. Per 60 anni i rifugiati palestinesi hanno detto chiaramente che non accetteranno nessun risarcimento monetario in sostituzione alla completa compensazione cui hanno diritto. Quest’ultima include il diritto al ritorno e la restituzione delle loro proprietà.
La creazione di uno Stato palestinese senza il completo riconoscimento del diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alle loro case di origine non offre rimedio o risarcimento ai rifugiati palestinesi. Ciò limiterebbe la loro capacità di autodeterminazione restringendo il diritto alla cittadinanza palestinese e abbandonando molti palestinesi allo stato di perenni esiliati. La questione del diritto al ritorno dei rifugiati è dunque legata a chi sono i palestinesi in quanto persone, a chi essi saranno. Spesso i rifugiati osservano che non possono portare indietro l’orologio. Quel che accadde nel 1948 è storia ormai. Non si può tornare indietro. Il diritto al ritorno tuttavia, non ha nulla a che vedere con il tornare indietro nel tempo. Il ritorno ha a che fare con il futuro. Si tratta infatti di tornare a vivere, dando una risposta a quel profondo sentimento di appartenenza ad una nazione dalla quale i rifugiati vennero strappati qualche decade fa. Si tratta di costruire una relazione tra palestinesi ed ebrei basata su giustizia ed eguaglianza. É il ritorno dei diritti, tutti i diritti.

Perché i rifugiati partirono? I leader politici arabi non gli dissero forse di partire?
La maggioranza dei palestinesi sfollarono conseguentemente ai crimini di guerra e alle gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle armate sioniste, più tardi da Israele, i quali tentarono di indurre alla fuga le popolazioni indigene palestinesi. Documentati incidenti includono attacchi ai civili, massacri, saccheggi, distruzione di proprietà (anche di interi villaggi) ed espulsioni forzate ad opera dei combattenti sionisti. In alcuni casi, i rifugiati furono forzati a firmare documenti nei quali si dichiarava che si trattava di partenza volontaria. Le forze israeliane adottarono la politica dello ‘spara e uccidi’ lungo i confini dell’armistizio in modo da prevenire il ritorno dei rifugiati. Si stima che approssimativamente il 50 % delle persone fuggì in seguito all’ assalto delle forze sioniste prima ancora che la guerra del 1948 fosse iniziata. Il 60% dei rifugiati dislocati in Giordania scappò conseguentemente ad assalti militari diretti. Nel 1948 l’ 85% dei palestinesi che vivevano in quello che è oggi lo Stato di Israele diventarono rifugiati. Più di 500 villaggi palestinesi furono spopolati e più tardi distrutti in modo da prevenire il ritorno dei rifugiati. Nel distretto di Jaffa, Ramla e Bir Saba non un solo villaggio palestinese fu lasciato in piedi. Durante la guerra del 1967, approssimativamente il 35% della popolazione palestinese della West Bank, della parte orientale di Gerusalemme e della Striscia di Gaza venne evacuata. I villaggi intorno a Latroun e Gerusalemme furono distrutti così come numerosi campi rifugiati. Sono state fatte affermazioni secondo le quali, nel 1948, L’Alto Comitato Arabo ordinò ai palestinesi di lasciare le loro case sino a quando le proprie armate non avessero sconfitto i sionisti. Nessuna prova di tale richiesta è mai stata recata. Anche nel caso in cui ciò fosse avvenuto, la legge internazionale esige che Israele permetta ai rifugiati e agli IDPs di tornare alle loro case.

Come risolvere la questione dei rifugiati palestinesi e degli IDPs?
La comunità internazionale ha formulato tre ‘soluzioni durevoli’ per risolvere le crisi dei rifugiati: rimpatrio (attuazione del diritto al ritorno e dell’ unica soluzione che soddisfa quello che è un diritto fondamentale), reinsediamento in un terzo paese; integrazione nel paese ospitante. Rimpatrio volontario –o ritorno al proprio paese di origine- è considerata la soluzione preferibile. Ritorno, restituzione delle proprietà e risarcimento fanno parte delle soluzioni durevoli, in particolare quando i rifugiati sono stati vittime del trasferimento forzato di intere popolazioni, dunque di pulizia etnica.

Qual è il ruolo dei rifugiati nell’ attuazione di una soluzione durevole?
La migliore pratica internazionale continua a sottolineare il fatto che i rifugiati dovrebbero liberamente e volontariamente scegliere una soluzione, ottenendo le giuste informazioni al riguardo. Un approccio che voglia prendere in considerazione il rispetto dei diritti di assistenza e protezione, richiede inoltre che si consultino i rifugiati dando loro il diritto di prender parte alla progettazione ed attuazione degli interventi nazionali ed internazionali. L’Alta commissione per i rifugiati delle nazioni Unite (UNHCR) ha adottato allo stesso modo il principio di volontarietà (scelta del rifugiato) a una loro partecipazione alla ricerca di soluzioni pratiche.
Nel caso dei rifugiati palestinesi, la Risoluzione 194 (1948) dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite afferma che il rifugiato deve poter scegliere la soluzione che predilige (ritorno o reinsediamento); ciò obbliga coloro che hanno scelto il ritorno alle loro case a vivere in pace con i loro vicini.

Se Israele deve mantenere la sua specificità ebraica, in che modo i rifugiati potranno ritornare?
Molto più spesso di quanto non si creda l’importanza della necessità di mantenere in Israele una maggioranza ebraica costituisce di per sé un argomento esauriente, che liquida qualsiasi discorso sull’opzione del ritorno dei rifugiati. La questione in ogni caso solleva tutta una serie di tematiche raramente affrontate in maniera sostanziale.

La maggioranza demografica ebraica che cosa protegge? Preserva forse valori sociali, culturali e religiosi? Provvede alla sicurezza fisica? Garantisce accesso alle risorse e ai centri di potere? 
Molti ebrei israeliani risponderebbero affermativamente a queste domande. Il fatto è che pratiche di segregazione e separazione e/o discriminazione basate su premesse di tipo razziale, etnico, nazionale o religioso sono moralmente sbagliate, per non dire illegali secondo quanto prescritto dal diritto internazionale. Durante tutti questi anni Israele ha sviluppato un regime di discriminazione istituzionale contro i non ebrei, privilegiando gli ebrei fuori e dentro il territorio nazionale per il rilascio della cittadinanza israeliana. I cittadini israeliani si dividono dunque secondo la legge tra cittadini ebrei e non ebrei (prevalentemente palestinesi). Questi ultimi sono di fatto cittadini di serie B, sottoposti ad un apparato legale e burocratico essenzialmente diverso.
Tale discriminazione è particolarmente evidente nelle leggi e nelle politiche israeliane che regolano immigrazione e accesso alla cittadinanza, alla terra e ai servizi pubblici. L’adesione formale a tale regime discriminatorio costituisce un requisito fondamentale per ogni partito politico che voglia partecipare alle elezioni parlamentari. La predilezione degli ebrei nel rilascio della cittadinanza viene di fatto sorretta dall’intero sistema e costituisce il principale ostacolo ad una soluzione durevole al problema dei rifugiati palestinesi.
L’effettivo e sostanziale ritorno dei rifugiati palestinesi aumenterebbe il numero dei cittadini palestinesi autorizzati alla partecipazione politica nel normale processo democratico e ciò porterebbe inevitabilmente a riforme del regime discriminatorio israeliano. In conclusione dunque la chiave di risoluzione del problema dei rifugiati palestinesi risiede nel successo degli sforzi in corso per fare pressioni su Israele perché agisca in conformità con il diritto internazionale in materia di diritti umani.
In passato Ebrei, Arabi, Cristiani e Musulmani vivevano insieme ed in armonia in questa terra. Solamente sostenendo l’applicazione dei valori espressi dai diritti umani e comunemente condivisi e incarnati nel diritto internazionale, ci avvicineremo ad un campo di gioco in cui tutti saranno compresi, in cui nessuno si identificherà a dispetto dell’altro, dove tutti saranno ugualmente protetti dinnanzi alla legge.

Perché Israele non può definirsi come Stato ebraico e democratico allo stesso tempo?
Mentre Israele rivendica di essere uno Stato ebraico e democratico il risultato delle politiche israeliane è tale che Israele non è per la verità né ebreo (1.2 dei 5 milioni di Israeliani sono non-ebrei palestinesi) né democratico. Il riferimento all’uguaglianza che si trova nella Dichiarazione di Indipendenza israeliana non è applicato nelle corti israeliane, infatti non esiste nessun diritto all’uguaglianza in Israele. Inevitabilmente le caratteristiche proprie della democrazia vengono meno ogni qualvolta sono messe in pratica le varie politiche tese al mantenimento della maggioranza ebrea nello Stato.

Perché i rifugiati non ritornano ad un futuro Stato palestinese con sede nella West Bank o nella Striscia di Gaza?
La risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dichiara chiaramente che i rifugiati palestinesi e le persone internamente dislocate devono poter tornare alle loro case situate entro l’area divenuta Israele dopo il 1948. Nel caso in cui sorgessero dubbi riguardo al significato di questa frase, l’Assemblea Generale per ben due volte li ha dissipati, rifiutando ogni emendamento alla risoluzione e chiedendo che i rifugiati possano tornare nelle aree dalle quali provengono. L’unico modo per porre riparo al trasferimento forzato della popolazione attuato da Israele fin dal 1948 è permettere ai rifugiati di tornare a casa. Il fatto di creare due Stati fondati su diversi presupposti etnico-religiosi equivale a perpetuare la corrente situazione di disuguaglianza.
I rifugiati e gli IDPs originariamente provenienti dalle zone che Israele ha occupato nel 1967 devono avere la possibilità di tornarvi. I rifugiati di altre aree potranno scegliere di reinsediarsi in quelle aree, in particolare se diventeranno lo Stato Palestinese, invece di esercitare il loro diritto al ritorno. Permettere ai rifugiati di tornare unicamente ad uno Stato palestinese con sede nella West Bank o nella Striscia di Gaza non va incontro ai requisiti richiesti dal diritto internazionale.

Perché i Palestinesi sostengono la soluzione dei due Stati quando vogliono anche vedere riconosciuto ai rifugiati il diritto di tornare in Israele? Non si tratta forse di soluzione a uno Stato?
La decisione di accettare la soluzione dei due Stati (Costituzione di uno Stato Palestinese nei territori occupati nel 1967, confinante con Israele) era una decisione politica che il PLO5 prese nel 1988. Essa costituiva un compromesso sul territorio e sulla sovranità nazionale nel quale il PLO accettava la sovranità israeliana sul 78% della Palestina storica. La soluzione dei due Stati promossa dal PLO ha sempre incluso la richiesta di una soluzione al problema dei rifugiati palestinesi in accordo con la risoluzione 194 sancita dall’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il PLO non ha mai presentato una diversa proposta semplicemente perché nessuna legittima rappresentanza politica può ignorare i rifugiati (che rappresentano il 70% dei suoi sostenitori) ed i loro diritti, custoditi nel diritto internazionale. Secondo il diritto internazionale non esiste nessuna contraddizione tra la soluzione dei due Stati ed il diritto dei rifugiati a ritornare ai propri luoghi di residenza dentro i confini di Israele. Allo stesso tempo, la soluzione di un unico Stato unitario continua ad essere accolta da molti palestinesi come la favorita. Secondo tale visione, palestinesi ed israeliani vivranno insieme come uguali cittadini nell’area che si compone degli odierni Territori Occupati ed Israele. Questa soluzione al conflitto potrebbe facilmente integrarsi con il diritto al ritorno di molti rifugiati e IDPs. I sostenitori dello Stato unitario ritengono che questa soluzione sia la più atta a porre riparo alle violazioni dei diritti umani così come a risolvere tutti gli aspetti del conflitto Israelo-palestinese durevolmente. Tale opzione sembra essere inoltre la più concreta, dato che la proposta del PLO di fondare uno Stato palestinese nei Territori Occupati nel 1967 non è ormai più a lungo fattibile vista la colonizzazione israeliana in corso.

Perché gli Stati arabi non assorbono i rifugiati palestinesi così come Israele assorbì milioni di immigrati ebrei?
Alcuni hanno suggerito che il rifiuto degli Stati arabi all’insediamento dei rifugiati palestinesi si collega al rifiuto di accettare l’esistenza dello Stato di Israele.
Benché le politiche dello Stato di Israele sulla questione dei rifugiati siano sicuramente legate al più largo conflitto arabo-israeliano, la cosa più importante da tenere a mente è che gli Stati arabi non sono obbligati secondo la legge internazionale ad integrare o a far insediare permanentemente i rifugiati palestinesi; inoltre il reinsediamento forzato dei rifugiati palestinesi che desiderano esercitare il loro diritto al ritorno violerebbe le norme del diritto internazionale e la migliore pratica giudiziaria. I rifugiati palestinesi e gli Stati arabi non sono contrari all’opzione dell’integrazione locale e del reinsediamento in quanto parte del pacchetto composto delle tre opzioni offerte ai rifugiati di tutto il mondo, sempre che rimanga inclusa l’opzione del ritorno (rimpatrio). Esiste opposizione all’integrazione in un paese terzo e al reinsediamento solo nel caso in cui queste soluzioni vengano offerte come uniche opzioni e non come parte di un pacchetto in cui il diritto al ritorno viene riconosciuto solamente ad una quota limitata di rifugiati palestinesi scelti da Israele.

In che modo i rifugiati possono tornare ai loro villaggi e alle loro case quando questi ultimi sono stati distrutti e nuove città sono state costruite al loro posto? 
Già nel 1950 gli ufficiali israeliani informarono l’ONU che ‘il ritorno dei rifugiati arabi ai loro luoghi di appartenenza è impossibile. Le loro case non ci sono più, e nemmeno i loro impieghi.’ É vero che molti dei villaggi e delle case dei rifugiati palestinesi erano già stati rasi al suolo a quell’ epoca, ma è altrettanto importante ricordare che molte delle loro case e dei villaggi non vennero distrutti che a metà degli anni Sessanta. Allo stesso tempo, Israele ha assorbito centinaia di migliaia di persone semplicemente in nome del fatto che erano ebree. Queste persone erano estranee a questo paese e alla sua cultura e non vi avevano casa né lavoro. Solamente a partire dal 1990 Israele ha assorbito più di un milione di nuovi immigrati dall’ ex Unione Sovietica. La distruzione delle abitazioni dei rifugiati inoltre non ha impedito il ritorno dei rifugiati in altre parti del mondo. In Kosovo il 50% delle case era stato distrutto, il 65% in Bosnia e l’80% a Timor Est. In ciascuno dei casi precedentemente elencati la comunità internazionale sostenne che i rifugiati e le persone internamente dislocate avevano il diritto di tornare ai loro luoghi di appartenenza. La soluzione più logica al problema delle case distrutte o danneggiate è la loro ricostruzione o riabilitazione. La ricostruzione delle case dei rifugiati è supportata dal fatto che gran parte della terra espropriata ai rifugiati è rimasta ancor oggi vacante. La popolazione ebraica di Israele si concentra essenzialmente nei centri urbani. Gli ebrei che vivono in aree rurali sono all’incirca 160.000 e vivono in un’ area di circa 17.000 km2, più o meno tre quarti della totalità dello Stato di Israele. É da quell’area che proviene la maggior parte dei rifugiati. Si stima inoltre che nel 90% delle comunità dalle quali provengono i rifugiati palestinesi dentro Israele non esiste nessun conflitto con le comunità ebraiche che vi si sono insediate. In altre parole, il ritorno dei rifugiati palestinesi non avrebbe come conseguenza il dislocamento della popolazione ebraica dalle loro case e comunità.

Chi possederà quale terra? 
Il diritto internazionale è da ritenersi il punto di partenza per risolvere rivendicazioni di case e proprietà (vedi i principi di cui sopra). In pratica i casi di restituzione ad ebrei in Europa potranno fungere da esempio per risolvere le rivendicazioni di proprietà dei rifugiati in Israele. Precedenti rilevanti includono il diritto degli individui e dei loro eredi a reimpossessarsi delle case e delle proprietà abbandonate durante periodi di conflitto, il diritto degli individui a reimpossessarsi delle case e delle proprietà a dispetto del tempo trascorso, il diritto che hanno le organizzazioni a ricevere i beni comuni e degli eredi, il ruolo delle organizzazioni non governative nelle negoziazioni concernenti la restituzione delle case e delle proprietà, e il diritto degli individui alle restituzione di case e proprietà in Stati in cui non hanno cittadinanza o domicilio.

Cosa accade quando qualcun altro vive nella casa di un rifugiato?
La maggior parte delle case dei rifugiati è stata distrutta. Numerose case di rifugiati palestinesi nei centri urbani tuttavia rimangono. In molti casi si tratta di immobili prestigiosi, per l’ampiezza degli spazi e il design tradizionale. In tutti i casi in cui i rifugiati siano stati corrisposti con la restituzione delle proprie case e proprietà, la soluzione al problema di una seconda occupazione è stato regolato, quando concretamente era possibile, dal diritto del rifugiato alla restituzione. Se è lo Stato ad essere proprietario, esso è obbligato ad assicurare la restituzione. Nel caso in cui gli occupanti di una casa di proprietà di un rifugiato possano provare che comprarono quella proprietà in buona fede –per esempio non sapevano che quella casa appartenesse a qualcun altro- essi potranno fare reclamo per tale proprietà. In ogni caso il corpo amministrativo o giudiziario che gestisce le domande di restituzione deve assicurare che i diritti fondamentali di alloggio dei correnti abitanti siano corrisposti. In altre parole, l’attuale occupante della casa non potrà esser semplicemente buttato in strada. I governi ed in alcuni casi la comunità internazionale sono responsabili di assicurare al secondo occupante l’accesso ad una casa alternativa che risponda agli stessi standard abitativi. Spesso inoltre viene pagata una compensazione al secondo occupante per ogni miglioria effettuata all’abitazione.

Perché i diritti di rifugiati e IDPs palestinesi non vengono rispettati?
Nonostante numerose risoluzioni delle Nazioni Unite abbiano richiesto l’attuazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite numero 194 e 237, nessuna organizzazione internazionale si è attivamente impegnata nella formulazione di una soluzione esaustiva ai problemi degli IDPs e dei rifugiati palestinesi, fin dal 1950. Le politiche internazionali hanno invece limitato il ruolo delle Nazioni Unite in quanto garanti dei diritti dei rifugiati palestinesi circoscrivendone l’azione al campo degli aiuti umanitari. Nello stesso tempo la responsabilità di formulare soluzioni al problema è stata lasciata alle negoziazioni politiche tra le parti. Tali negoziazioni sono state caratterizzate da uno sbilanciamento del potere in favore di Israele; quest’ultimo, in cambio, ha costantemente evitato il riconoscimento e l’esecuzione del diritto al ritorno.

Perché Israele si oppone ad una soluzione durevole al problema dei rifugiati?
Israele non si oppone a durevoli soluzioni al problema dei rifugiati palestinesi. Storicamente tuttavia ha sempre cercato di limitare le tre soluzioni a lungo termine a due: integrazione locale nei paesi che ospitano i rifugiati e reinsediamento in un terzo Stato. Lo Stato di Israele non desidera accettare il ritorno come un diritto. Al massimo potrebbe prendere in esame di permettere il ritorno di un limitato numero di rifugiati all’interno dei propri confini come gesto umanitario. Nel 1990 Israele accettò il diritto dei palestinesi dislocati per la prima volta durante la guerra del 1967 di tornare ai territori occupati nel 1967. Tuttavia poi in seguito bloccò le negoziazioni impedendo che il ritorno fosse eseguito.

In che modo il diritto al ritorno contribuisce alla pace e alla riconciliazione?
In casi di trasferimenti forzati di massa il fatto di permettere alle persone dislocate di scegliere la soluzione alla loro situazione dolorosa, si tratti di ritorno, reintegrazione o reinsediamento, è considerato essenziale nel processo di pace e riconciliazione. In questo modo si fornisce infatti l’opportunità di una scelta individuale di autodeterminazione il ché contribuisce in cambio a reinstaurare un senso di giustizia collettivo. Quest’ultimo è elemento fondamentale di una pace durevole e permanente. Fino a quando si negherà il diritto dei rifugiati a tornare alle loro case ed essi saranno forzati all’esilio, la pace e la stabilità verranno rinviate.