Yasser Arafat
Yasser Arafat (24 agosto 1929 – 11 novembre 2004) - Il suo nome era Muḥammad Abd al-Raḥmān Abd al-Raūf al-Qudwa al-Ḥusaynī ma, è noto anche con lo pseudonimo di Abū Ammār ed è stato un combattente, figura di spicco del panorama politico mondiale. Yasser Arafat, uomo politico e leader palestinese, presidente di Al-Fatah, dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e dal 1996 dell’Autorità nazionale palestinese (ANP).
Anche se alcune sue biografie indicano Gerusalemme come luogo di nascita, Arafat nacque al Cairo da una famiglia della piccola borghesia palestinese emigrata in Egitto nel 1927. Rimasto orfano della madre nel 1933, trascorse i successivi quattro anni a Gerusalemme, ospite di uno zio, e si riunì poi con il padre al Cairo, dove compì gli studi. Avvicinatosi all’associazione islamica dei Fratelli musulmani, nel 1948, dopo la proclamazione dello stato d’Israele, si aggregò a un gruppo di combattenti palestinesi, assistendo alla disfatta delle forze dei paesi arabi intervenute contro Israele e alla dispersione della popolazione palestinese. Rientrato al Cairo, intraprese gli studi di ingegneria, intensificando nel contempo la sua militanza nei gruppi nazionalisti arabi e partecipando ad azioni di guerriglia contro le forze britanniche nella zona del canale di Suez. Eletto alla guida dell’Associazione degli studenti palestinesi, si unì all’esercito egiziano nella crisi di Suez del 1956.
Nel 1957, la crescente pressione del regime di Gamal Abd el Nasser sulle organizzazioni palestinesi lo indusse a trasferirsi in Kuwait, dove costituì una società di costruzioni continuando però l’attività politica clandestina. Nell’autunno del 1957 fondò infatti con altri fuoriusciti il primo gruppo di guerriglieri palestinesi chiamati fedayn (cioè “votati”, a una causa o alla morte) e nel 1959 l’organizzazione Al-Fatah, di cui prese la guida con il nome di battaglia di “Abu Ammar”.
Diventato uno dei principali leader politici della scena palestinese, Arafat ottenne i primi importanti riconoscimenti in seno al mondo arabo e nel 1962 partecipò, accanto ai capi di stato e di governo di tutto il mondo, alla cerimonia di proclamazione dell’indipendenza dell’Algeria, dove l’anno seguente Al-Fatah poté aprire la sua prima rappresentanza ufficiale. In seguito Arafat intensificò i suoi viaggi clandestini in Palestina e il 1° gennaio 1965, dopo diversi rinvii dovuti a contrasti in seno ad Al-Fatah (oltre che alla scarsezza di armi e di mezzi), proclamò la lotta armata, tentando di coinvolgere le leadership arabe in uno scontro generale contro Israele.
Dopo l’ulteriore sconfitta dei paesi arabi nella guerra dei Sei giorni (1967) e l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte dell’esercito ebraico, Arafat sostenne la necessità di proseguire la guerriglia contro Israele. Nel 1968, Arafat e la sua organizzazione Al-Fatah, opponendosi energicamente all’attacco israeliano a Karamah (in Giordania, sede di uno dei principali santuari della guerriglia palestinese), diventarono il simbolo della riscossa araba.
Nel 1969 Arafat prese in mano la direzione dell’OLP, il cui obiettivo strategico divenne la creazione dello stato palestinese; si intensificarono nel contempo le incursioni della guerriglia palestinese all’interno del territorio israeliano, provocando severe rappresaglie e mettendo a repentaglio la stabilità delle leadership arabe, soprattutto quelle della Giordania, della Siria e del Libano da cui partivano gli attacchi dei fedayn. Alla fine dell’anno, Arafat venne accolto a Rabat, al quinto vertice della Lega araba, con gli onori di un capo di stato, ma la spirale di violenza innescata dalle azioni terroristiche della guerriglia palestinese portò a un grave deterioramento dei rapporti tra OLP e paesi arabi. Le tensioni raggiunsero il culmine in Giordania (dove i palestinesi avevano organizzato autonomamente la loro comunità, diventando una sorta di “stato nello stato”), sfociando nel 1970 nel violento scontro del “settembre nero”, che si protrasse fino al giugno 1971, quando tutte le milizie dell’OLP furono costrette a lasciare il paese.
Trasferitosi in Libano, Arafat riprese il controllo dell’OLP e, isolando le organizzazioni più estremiste (riunite nel “fronte del rifiuto” a qualsiasi negoziato con Israele), impresse al suo programma una svolta storica; nel 1974 egli infatti accennò per la prima volta alla possibilità di rinunciare a una parte della Palestina e alla disponibilità a partecipare a un’eventuale trattativa di pace. In questo modo Arafat ottenne molti consensi internazionali e il riconoscimento dell’OLP come “legittimo rappresentante del popolo palestinese” da parte dei paesi non allineati e della Lega araba. Nell’ottobre 1974 l’OLP venne riconosciuto come “movimento di liberazione nazionale” dalle stesse Nazioni Unite; nel novembre successivo, Arafat venne invitato ufficialmente a partecipare al dibattito dell’Assemblea generale dell’ONU sulla “questione palestinese”, che si concluse con il riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, all’indipendenza nazionale e alla sovranità.
Nonostante i successi diplomatici e i sostegni, anche materiali, ottenuti da Arafat, nella seconda metà degli anni Settanta i cambiamenti avvenuti nel quadro mediorientale allontanarono la soluzione del problema palestinese. Nel Libano, diventato dopo il “settembre nero” il principale rifugio dei profughi palestinesi e base operativa dell’OLP, nel 1975 scoppiò la guerra civile. I palestinesi, schierati con le fazioni di sinistra e musulmane del paese, furono pesantemente coinvolti nello scontro e nell’agosto 1976 subirono più di 2000 perdite nel massacro perpetrato dalle milizie cristiano-maronite e siriane nel campo profughi di Tell el-Zaatar. Nel 1977 in Israele andò al potere, per la prima volta dalla creazione dello stato ebraico, la destra nazionalista, contraria al ritiro dai territori occupati nel 1967 e alla costituzione di uno stato palestinese. Nel novembre dello stesso anno il presidente egiziano Anwar al-Sadat si recò a Gerusalemme e nell’estate del 1978 stipulò gli accordi di Camp David con Israele, spaccando il fronte arabo. All’interno della resistenza palestinese, le organizzazioni più intransigenti, già contrarie all’indirizzo impresso da Arafat all’OLP, trassero nuova linfa dalla rivoluzione islamica del gennaio 1979 in Iran.
Arafat si convinse invece dell’impossibilità di pervenire a una soluzione della questione palestinese attraverso la lotta armata e della necessità di continuare a percorrere la strada della trattativa politica, approfondendo le relazioni esistenti e cercando nuovi alleati, anche nella stessa Israele. La nuova offensiva diplomatica fu tuttavia ostacolata nel 1980 dall’aggravarsi della crisi libanese, che nel 1982 culminò nell’operazione “Pace in Galilea” lanciata da Israele in Libano con l’obiettivo di liquidare la resistenza palestinese e lo stesso Arafat, che sfuggì diverse volte alla morte durante l’assedio di Beirut. Il 30 agosto, in seguito a una convulsa trattativa internazionale, Arafat venne costretto a lasciare il Libano, insieme con migliaia di fedayn, e a trasferirsi a Tunisi; pochi giorni dopo, le milizie falangiste cristiane, sotto lo sguardo delle forze israeliane di Ariel Sharon, irruppero negli indifesi campi profughi di Sabra e Chatila sterminando più di 2000 civili palestinesi, in gran parte donne, vecchi e bambini.
Sebbene lontano dalla Palestina, Arafat conservò la guida dell’OLP, affermandovi la sua linea moderata e pragmatica. Riprese così a tessere la tela diplomatica nel complesso terreno delle relazioni arabe, riallacciando i rapporti con la Giordania e l’Egitto. Arafat trovò sulla sua strada molti ostacoli: innanzitutto Israele, che attraverso i suoi servizi segreti assestò colpi mortali alla dirigenza di Al-Fatah e dell’OLP, tentando anche di sopprimere il leader palestinese con un raid aereo sul suo quartier generale di Tunisi nell’ottobre 1985; la Siria, che dopo aver tentato di eliminarlo fisicamente, gli scagliò contro le milizie sciite di Amal nella cosiddetta “guerra dei campi”, che imperversò per ventotto mesi, tra il 1985 e il 1987, nei campi profughi in Libano; la Giordania, che nel 1987 tentò di escludere l’OLP e Arafat da eventuali trattative di pace con Israele.
Nel dicembre 1987 nei territori palestinesi occupati scoppiò l’intifada, detta anche la “rivolta delle pietre”. Nel marzo del 1988, accolto con tutti gli onori nella conferenza straordinaria della Lega araba ad Algeri, Arafat tornò improvvisamente a calcare da protagonista la scena politica mediorientale. In luglio, con la rinuncia definitiva della Giordania a ogni rivendicazione sui territori della Cisgiordania, l’OLP diventò il rappresentante “unico e legittimo” della popolazione palestinese dei territori occupati. In novembre, Arafat portò l’OLP a compiere un’ulteriore importante svolta strategica; l’accettazione della risoluzione 242 delle Nazioni Unite del 1967 (con l’implicito riconoscimento dello stato d’Israele) e la rinuncia a forme di lotta terroristiche aprirono infatti la strada alla trattativa internazionale sulla questione palestinese.
Schieratosi con Saddam Hussein nella guerra del Golfo (1991), Arafat rimase nuovamente isolato, ma l’impegno assunto dagli Stati Uniti nei confronti dei paesi arabi rilanciò il dialogo, che si aprì ufficialmente a Madrid nell’ottobre 1991 per proseguire a Washington. La trattativa vera e propria si svolse però in gran segreto in Norvegia, tra il 1992 e il 1993, fra rappresentanti di Israele e dell’OLP in stretto contatto con Arafat. Nel settembre 1993, Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin sottoscrissero a Washington i cosiddetti “accordi di Oslo”, in cui, in seguito al reciproco riconoscimento, OLP e Israele si impegnavano, sulla base del principio “territori in cambio di pace”, ad avviare un processo rivolto alla costituzione in Palestina di uno stato palestinese accanto a quello israeliano. Gli accordi prevedevano l’istituzione di un’Autorità nazionale palestinese (ANP), cui veniva affidato il governo della Striscia di Gaza e di alcune città della Cisgiordania.
Gli accordi furono accolti con soddisfazione sia in Palestina sia in Israele, ma incontrarono anche forti resistenze. Entrambi i leader furono tacciati di tradimento e sottoposti ad aspre critiche dalle fazioni più nazionaliste, che ostacolarono con tutti i mezzi il processo di pace. Nel febbraio 1994, un estremista religioso israeliano irruppe nella moschea di Hebron sparando all’impazzata sui fedeli raccolti in preghiera, uccidendone 29 e ferendone 125; nei mesi successivi, un’ondata di attentati rivendicati dall’organizzazione integralista palestinese Hamas causò 38 morti e 160 feriti tra gli israeliani.
Nel luglio 1994 Arafat fece ritorno in Palestina dopo 25 anni, accolto da una folla entusiasta, per assumere la presidenza dell’ANP. Alla fine dello stesso anno, il leader palestinese condivise con Rabin e Shimon Peres il premio Nobel per aver riportato “la pace e la cooperazione” in Medio Oriente.
Arafat si recò per la prima volta in Israele, in forma privata e segreta, verso la metà del novembre 1995, per portare le sue condoglianze alla vedova di Yitzhak Rabin, ucciso agli inizi del mese da un estremista ebreo al culmine di una violentissima campagna di denigrazione scatenata dal Likud e dai partiti della destra religiosa.
Nel gennaio 1996 il leader palestinese fu eletto a capo dell’esecutivo del Consiglio nazionale palestinese con l’88% dei voti dei palestinesi dei territori occupati. Dopo le elezioni legislative israeliane del maggio 1996, clamorosamente perse dai laburisti, il processo di pace israelo-palestinese entrò in una fase di stallo e Arafat venne fatto segno da crescenti critiche; nel contempo si intensificò la violenza, con una serie di attentati nelle città israeliane e violente rappresaglie nei territori palestinesi. Grazie alla mediazione del presidente statunitense Bill Clinton e del re Hussein di Giordania, nell’ottobre 1998 Arafat firmò con il nuovo premier israeliano Benjamin Netanyahu gli accordi di Wye Mills Plantation, che riprendendo parzialmente gli accordi di Oslo impegnavano Israele a ritirare entro un anno le proprie truppe dal 13% del territorio della Cisgiordania e l’ANP a preparare un piano di sicurezza per impedire nuovi attentati. Gli accordi vennero tuttavia sostanzialmente disattesi dalle autorità israeliane (che incoraggiarono l’insediamento di nuove colonie ebraiche nei territori occupati), anche quando alla guida del governo israeliano, nel maggio 1999, succedette il laburista Ehud Barak.
Sempre più criticato, anche all’interno della stessa Al-Fatah, per la modestia delle conquiste raggiunte, ma anche per la grave crisi economica dei territori e la corruzione diffusa nell’amministrazione palestinese, Arafat compì un ulteriore tentativo di rilanciare il processo di pace incontrando Barak nell’estate 2000 a Camp David, dove le trattative si arenarono dopo due settimane di colloqui infruttuosi. Nel gennaio 2001, le delegazioni israeliana e palestinese si rincontrarono in Egitto, giungendo vicine a un accordo, che non vide tuttavia alcuno sviluppo per l’affermarsi, nelle successive elezioni di febbraio, di Ariel Sharon.