Proclamazione dello stato di Israele
Il 15 maggio 1948 il gruppo dirigente sionista diretto da Ben Gurion respinge a maggioranza (con il voto di Golda Meir) la richiesta di tregua dell’ONU e Ben Gurion proclama ufficialmente la nascita dello stato di Israele con C. Weizmann come presidente e lui stesso primo ministro. 
Lo stesso giorno i miliziani sionisti si impadroniscono delle postazioni militari abbandonate dagli inglesi, mentre durante i mesi precedenti centinaia di migliaia di civili palestinesi erano già stati costretti dai sionisti ad abbandonare le loro case e le loro terre.  
In questo modo i sionisti occuparono il 76 % della Palestina, ovvero molto di più del 56 % loro assegnato dall’ONU (vedi pure “Cronistoria dal 1936 a oggi “). Il giorno successivo, per non scontentare l’elettorato ebraico, il presidente degli USA Truman riconosce lo stato di Israele (tuttavia senza definirne i confini). Uno dopo l’altra anche le altre nazioni riconosceranno lo stato di Israele.
Per i sionisti la proclamazione dello stato di Israele, oltre che essere una vittoria politica e morale, significava  “poter tenere” definitivamente le terre che avevano occupato illegalmente e questo persino con il beneplacito della comunità internazionale. Il riconoscimento internazionale permise a Israele di riarmarsi, il che permise poi ai sionisti di far fronte con successo alle armate arabe.
Inversamente la nascita di Israele fu una grave sconfitta per i palestinesi che fino alla fine degli anni ‘80  non accettarono l’esistenza di Israele inserendo persino il principio della distruzione di Israele nella propria carta costituente.
Pochi giorni dopo la proclamazione dello stato di Israele, gli eserciti degli stati arabi confinanti e un contingente iracheno diedero avvio a quella che ufficialmente è definita la I. guerra arabo - israeliana invadendo la Palestina.
Da sottolineare che fu creato uno stato ebraico, ovvero fondato sulla religione ebraica.
Ovviamente in un simile stato non c’è posto per i non ebrei che tuttalpiù sono solo tollerati.

1948 - I. guerra arabo - israeliana e le sue conseguenze
Secondo lo storico israeliano Ilan Pappé, contrariamente alle tesi ufficiali israeliane, nel maggio 1948 l’esercito della Transgiordania (ora Giordania) concentrò il suo sforzo bellico verso Gerusalemme dichiarata dall’ONU città internazionale. L’esercito libanese e quello Iracheno non parteciparono alle operazioni belliche. Solo gli eserciti di Siria e Egitto tentarono di indebolire i sionisti e operarono per contenere l’espansionismo transgiordano. Sebbene il conflitto del 1948 sia stato descritto come un'invasione, i combattimenti si svolsero sostanzialmente sul territorio destinato allo Stato palestinese. Non si può dunque parlare di un attacco degli arabi a Israele bensì solo di una difesa dei territori assegnati dall’ONU ai palestinesi. Pure la consistenza e l’entità dell’impegno degli eserciti in campo accorda la supremazia militare a Israele, e ciò in contrasto alla tesi Israeliana che descrive la vittoria di Israele come una vittoria di Davide contro Golia. Da ricordare le enormi forniture di armi ricevute dai sionisti soprattutto dalla Cecoslovacchia.
Dopo una prima avanzata (ostacolata e ritardata dai profughi palestinesi messi in fuga dai sionisti anche a questo scopo),  le forze arabe, mal dirette e corrotte, vengono ripetutamente battute e le successive tregue sono regolarmente violate dalle forze ebraiche. Il 31 maggio sono create le Forze di Difesa d'Israele (Tsahal). A luglio Israele occupa Lydda, Ramleh, Nazareth e a ottobre occupa la Galilea e, malgrado avesse firmato un armistizio con le truppe transgiordane, il deserto del Neghev.
Il 17 settembre ‘48 i terroristi sionisti del gruppo Stern assassinano il mediatore dell’ONU, il conte svedese Bernadotte, che si era espresso in favore del rientro dei profughi palestinesi e che aveva proposto un proprio piano di spartizione.
L’intervento degli eserciti arabi del 1948 non modificò le sorti dei palestinesi. 
La guerra consentì agli israeliani nuove conquiste e portò il totale dei profughi palestinesi a ottocentomila. Di loro solo circa 10'000 poterono ritornare alla fine del conflitto. 
Al termine dello scontro, Israele controllava il ventuno per cento del territorio destinato dall’ONU allo stato Palestinese, ovvero il 77,7% del territorio palestinese originario. Il rimanente 22,3% fu in parte annesso al regno di Transgiordania, che mutò il suo nome in Giordania, mentre ciò che rimase della Zona di Gaza passò sotto amministrazione militare egiziana.
A questa operazione, preventivamente negoziata in segreto tra Golda Meir, per conto dei sionisti, e il re giordano Abdullah, Israele diede il suo tacito assenso. Essa contraddiceva, è vero, il progetto di uno Stato ebraico sulle due rive del Giordano, caldeggiato attivamente dalla destra sionista. Ma in quella fase della vita dello stato ebraico, il potere era nelle mani di Ben Gurion e dei pragmatici, consapevoli sia del fatto che era stato toccato, per il momento e per un lungo periodo, il limite dei vantaggi consentiti dalla superiorità militare con relativi vantaggi politici. 
Il nuovo assetto era caratterizzato dalla scomparsa della parola Palestina dalla carta geografica e dalla neonata possibilità per Israele di impostare il problema della pace come vertenza tra Stati, con il riconoscimento arabo dello status-quo come soluzione obbligata e la negazione da parte di Israele dell’esistenza di un popolo palestinese e dei suoi diritti.

La ricerca compiuta dallo studioso israeliano Benny Morris sui documenti degli archivi di Stato israeliani riguarda trecentosessantanove ( 369 ) città e villaggi palestinesi e le motivazioni del loro abbandono, che sono, in duecentotrentuno casi, attacchi militari israeliani, in quarantuno l'espulsione diretta, in ottantanove il panico creato dalla caduta o dall’ esodo da città vicine, il timore di attacchi o voci allarmistiche propagate dagli israeliani a titolo di “guerra psicologica”. Solo in cinque casi l'abbandono è attribuito a ordini di autorità arabe locali  ( “non vi è prova - scrive lo storico - che gli arabi auspicassero un esodo in massa o che abbiano pubblicato una direttiva generale, o appelli, per invitare i palestinesi a fuggire”; vi sono, anzi, indicazioni in senso contrario” ). In ogni caso i palestinesi che partirono erano convinti di poter ritornare alle loro case dopo pochi giorni (ancora oggi conservano le chiavi delle case abbandonate). Coloro che dovettero rifugiarsi in Giordania, all’attraversamento del ponte Allenby sul Giordano, furono obbligati a firmare un formulario stampato solo in ebraico con cui dichiaravano di non ritornare in Palestina e di rinunciare alla nazionalità e a ogni proprietà che possedevano in Palestina. Una terza persona firmava per chi non sapeva scrivere. Queste dichiarazioni illegali ancora oggi vengono sbandierate dai sionisti a prova del loro diritto di possedere la terra dei palestinesi e del loro diritto di impedire il ritorno dei profughi.
Mancano testimonianze scritte del coinvolgimento dei massimi livelli del governo israeliano alla cacciata dei palestinesi ma non vi è dubbio che, a un livello inferiore siano state programmate ed eseguite vere e proprie operazioni e che due successivi comitati ad hoc, presieduti dal direttore della sezione per la terra del Fondo nazionale ebraico, Yosef Weitz, siano stati attivi, con il tacito assenso di Ben Gurion e di uomini di governo, in quello che veniva eufemisticamente definito il “trasferimento” delle popolazioni; “trasferimento” sistematicamente seguito, in tempi più o meno brevi, dalla distruzione dei villaggi abbandonati, dal sequestro delle proprietà dei profughi in base alla “legge sugli assenti”, dalla ricostruzione e dal ripopolamento con immigranti ebrei. 
Gli eventi del 1948-49 furono cruciali nella storia del conflitto e nella storia stessa dello Stato  ebraico: i consensi all'ipotesi di una convivenza pacifica tra i due popoli cedono il passo alla logica del “fare ciò che conviene agli ebrei” e la psicosi del piccolo paese assediato diventa substrato e alibi di una politica di forza, legata alla certezza della superiorità militare.


Gli armistizi del 1949
Alla fine della guerra del 1948, ignorando totalmente i palestinesi, Israele firmò a Rodi l’armistizio con gli stati arabi belligeranti. Il 24 febbraio 1949 Israele firmò l’armistizio con il re Abdallah di Transgiordania ma non rispettando i patti il 10 marzo successivo attaccò le forze transgiordane a sud del Negev. Conquistarono tale zona, rasero al suolo il villaggio palestinese di Umm Rash-Rash e estesero il loro territorio fino allo strategico golfo di Aqaba. Nel 1951, sulle rovine del villaggio fondarono la città di Eilath che tuttora è parte di Israele e ancora oggi noto centro turistico - balneare. 
Con la firma degli armistizi lo stato di Israele marcò politicamente la sua esistenza, mentre per i palestinesi (esclusi dagli accordi) ciò significò la completa scomparsa come entità politica e nazionale. Gli armistizi segnarono pure l’inizio della politica di Israele tesa a dimostrare che all’origine del conflitto vicino-orientale c’era unicamente un conflitto tra singoli stati confinanti che poteva essere risolto solo mediante trattative e accordi bilaterali, il che escludeva a priori i palestinesi.

Il boicotto dei paesi Arabi
A seguito dei fatti del 1945 -1948 i paesi arabi istituirono un boicotto di Israele, delle ditte Israeliane e delle ditte internazionali che contribuiscono all’armamento di Israele . Il boicotto fu più o meno rispettato e si allentò solo dal 1980 quando si avviarono le prime trattative di pace tra Israele e i palestinesi. Recentemente il boicotto ha ripreso spessore. In funzione antiboicotto gli USA hanno varato una legge che penalizza gli Stati che rispettano un boicotto non ordinato dagli USA.